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Crisi demografica e carenza di vocazioni al lavoro: andiamo in Africa? Emme Zeta: "Anche no!"

 |  Redazione sport  |  Commento del giorno
La bandiera del Ghana

L’argomento è di quelli calienti, sul quale si sono già spesi fiumi di inchiostro, ma che merita un doveroso approfondimento, anche per consentire ai nostri più attenti lettori di farsi un’idea precisa, non ideologica, ma basata, se possibile, unicamente su alcuni, indiscutibili dati di fatto. 

Il “sasso nello stagno” l’ha gettato alcuni giorni fa un personaggio scomodo, ma dotato di indubbia lungimiranza, quale il presidente di Confindustria Alto Adriatico Michelangelo Agrusti. In buona sostanza,  Confindustria Alto Adriatico, nel prendere atto sia della pesante crisi demografica (135 mila ragazzi iscritti in meno per il prossimo anno scolastico!), sia della carenza di manodopera specializzata e generica, ma anche delle difficoltà nella mobilità interna al Paese (con conseguente necessità di introdurre rilevanti forme agevolative che rendano davvero attrattivo traferirsi per lavoro nella nostra regione), ha presentato un progetto che affronta il problema “utilizzando le leggi che già ci sono e andando a formare i lavoratori nei loro Paese di origine”. Tra questi, la scelta è caduta sul Ghana, in prosecuzione al buon successo, anche in termini di integrazione sociale, registrato da una analoga esperienza già fatta da Electrolux, tant’è che oggi nel pordenonese i ghanesi sono il 12 % della popolazione residente, di religione cristiana e ben inseriti nel tessuto sociale locale. Il progetto prevede una Academy  ad Accra (la capitale del Ghana), il coinvolgimento diretto di soggetti specializzati nella formazione all’estero (quale Umana), dell’ambasciata italiana (per il necessario supporto logistico in loco), nonché di alcune delle maggiori aziende regionali interessate all’operazione quali Fincantieri e Friul Intagli. Naturalmente, i lavoratori ghanesi, una volta formati, avranno una corsia preferenziale per l’ingresso in Italia nell’ambito del “decreto flussi” che annualmente stabilisce le quote di ingresso per i lavoratori extracomunitari. Agrusti, nell’evidenziare che di questa iniziativa è stato informato anche il ministero degli Esteri, amplia il suo ragionamento e, sempre nell’ottica di affrontare la crisi di manodopera del manifatturiero regionale, esplicita alcune condizioni indispensabili a favorire la mobilità interna al Paese da aree ad alto tasso di disoccupazione ad aree ad elevata richiesta di manodopera quali, ad esempio, l’agevolazione ai trasferimenti con detrazione delle spese di viaggio o la messa a diposizione di strutture alberghiere di appoggio per chi proviene da città distanti oltre 500 chilometri dalla sede di lavoro.  In definitiva, siamo in presenza di una chiara presa di coscienza di un problema pressante e destinato ad aggravarsi nei prossimi anni (qualcuno già oggi parla di rischio per l’Italia di una  prossima desertificazione industriale)  con individuazione di possibili, realistici e complementari percorsi di risposta. Tutto bene, dunque?  Nient’affatto.  A scendere in campo, con una risposta dura nella sostanza (anche se poi più sfumata in sede di replica), è il sindaco di Monfalcone, Anna Maria Cisint.  Ovviamente, la realtà di Monfalcone, quanto alla presenza di lavoratori extracomunitari, costituisce un unicum a livello regionale, visto che già oggi gli stranieri “regolari” rappresentano circa il 30 % della popolazione complessiva e di questo 30 %, il 60 % sono  asiatici e per la gran parte musulmani. Dunque, quando la Cisint affronta questo argomento parla, come dire, con cognizione di causa. La base del suo ragionamento è che sono le condizioni di lavoro offerte agli extracomunitari, laddove “prevalgono le forme di dumping contrattuale e salariale”, ad alimentare il ricorso a questa tipologia di manodopera. Ponendo in essere un’azione concertata tra imprese, pubbliche amministrazioni locali e centrali, mondo della formazione professionale ecco che, come d’incanto, saranno i disoccupati locali o, al massimo, di altre regioni d’Italia, a rispondere ai fabbisogni occupazionali che vengono dal mondo delle imprese, non solo del manifatturiero, ma anche dei servizi. Tutto questo, conclude il sindaco, per rispettare quello che lei stessa definisce “limite di compatibilità urbana e sociale”, rapportato alle dinamiche demografiche e sociali: quindi, in una parola, meno Ghana e più Friuli Venezia Giulia!

Nella polemica si inseriscono nell’ordine gli interventi di un imprenditore quale Alessandro Vescovini (a capo di un’azienda da 500 addetti quale la Sbe Varvit), il sindaco di Gorizia Rodolfo Ziberna ed il segretario regionale della Uil Matteo Zorn. Vediamo, in sintesi, il senso dei loro discorsi. Vescovini, noto per le sue proverbiali iperboli polemiche, si schiera apertamente dalla parte di Confindustria “ andiamo pure in Ghana a prendere gli immigrati…altrimenti qui in Italia siamo finiti: c’è la crisi demografica  e le imprese non trovano più nessuno che vuole lavorare.. A breve il sistema paese collasserà perché vanno tutti in pensione e la previdenza salterà”. Quanto al giudizio sul sindaco di Monfalcone, le parole sono lusinghiere, però “oggi ha dimostrato di non essere una statista che pensa alle prossime generazioni, commettendo un errore di valutazione. Certo ha enormi attenuanti, si trova ad amministrare una città dove l’immigrazione incontrollata e non pianificata ha stravolto totalmente il territorio…”.  Tuttavia, causa la crisi demografica, la domanda di lavoro è crollata: non si trovano più operai né generici né specializzati e mancano baristi, cuochi, bagnini, infermieri ecc. “Dobbiamo fare come fa la Germania – conclude Vescovini – che va a scegliersi gli immigrati che le servono e viene fatta la formazione a carico delle imprese. Le imprese devono farsi carico delle persone che assumono, contribuendo a realizzare adeguate soluzioni abitative e aiutando il territorio a integrare i lavoratori e le loro famiglie”. Ragionamento ineccepibile, verrebbe da dire, tanto da trovare concorde, nella sostanza, anche il sindaco di Gorizia Ziberna che, da parte sua, pone  l’accento su un altro essenziale aspetto. Occorre, sostiene Ziberna, ridare dignità al lavoro, quindi investire su innovazione, ricerca e formazione, considerando il lavoro come un valore per la crescita della persona, fermando l’odiosa pratica di usare gli stranieri per abbassare i salari “creando nuovi schiavi e danneggiando anche gli italiani”.  Di segnale opposto (e quindi più vicino all’opinione della Cisint) è il parere del sindacalista della Uil Zorn  che insiste, correttamente dal suo punto di vista, sull’aspetto dei diritti e dei livelli salariali dignitosi. A suo avviso, piuttosto che andare all’estero a fare formazione (come da proposta di Confindustria), la formazione  “andrebbe fatta qui, dove ci sono norme diritti, garanzie e lavoro, ma ha senso solo se seguita da condizioni dignitose per i lavoratori”.  Chiudiamo questa rapida carrellata con la chiosa finale del sindaco di Monfalcone che, partendo dalla condivisibile considerazione che il mercato del lavoro non possa essere considerato come un “Far West”, richiama tutti gli attori al rispetto delle regole e alla necessità di ripartire dalla qualificazione professionale e dal rispetto dei contratti con la finalità di “richiamare” al lavoro la manodopera locale disoccupata e quella delle aziende in crisi. Quanto alla manodopera immigrata (in gran prevalenza dal Bangladesh), Cisint ne ribadisce tutti gli aspetti negativi e tutte le criticità  e per questo si aspetta “un progetto complessivo che riguardi tutto il sistema produttivo”.

Sin qui la sintesi del dibattito, apparso in varie puntate sulla stampa quotidiana. Che conclusioni possiamo ragionevolmente trarre? La prima: il progetto di Confindustria Alto Adriatico appare condivisibile proprio perché si propone la finalità, alta, di importare manodopera “formata” ed integrabile, senza cedere ad alcuna tentazione di dumping sociale e salariale. La seconda: questo strumento non deve rappresentare un caso isolato, ma va visto come una best practice da replicare su scala regionale e, auspicabilmente, nazionale per dare una risposta reale, equilibrata e socialmente sostenibile all’inverno demografico del nostro paese. La terza: a Monfalcone, col diretto coinvolgimento di Fincantieri, va elaborato, con un rilevante impegno di risorse pubbliche, un progetto complessivo per ristabilire condizioni sociali, educative ed ambientali di piena integrazione nel tessuto sociale cittadino del mondo della manodopera immigrata: non siamo in Francia, ma il rischio ghetto con conseguente rifiuto delle nostre regole di civiltà è sempre dietro l’angolo!

Emme Zeta